In Perù, un team di archeologi ha scoperto i resti di un tempio e di un teatro risalenti a un periodo compreso tra 4.000 e 5.000 anni fa. Questa importante scoperta, avvenuta nel sito di Los Paredones de la Otra Banda-Las Ánimas, può fornire nuovi elementi per comprendere le origini delle complesse religioni della regione. All’interno del tempio cerimoniale sono stati rinvenuti resti umani di tre adulti, fregi raffiguranti animali mitici della cultura dell’epoca e numerosi doni cerimoniali, suggerendo che i tre individui fossero vittime di un sacrificio rituale.
La datazione delle strutture e il fatto che il tempio sia stato costruito da una civiltà di cui si sa molto poco, e non dagli Inca, rendono la scoperta particolarmente significativa. Inoltre, è stata trovata anche la tomba di un bambino, il cui sacrificio non è ancora stato accertato, e la cui sepoltura avvenne secoli dopo la costruzione del tempio.
Il Ministero della Cultura peruviano ha divulgato la notizia, citando l’archeologo Luis Armando Muro Ynoñán, che ha espresso sorpresa per la vicinanza delle antiche strutture alla superficie moderna. Gli scavi, infatti, hanno rivelato i primi muri a soli 1,8 metri di profondità. Tra i ritrovamenti, una “sezione” di un grande tempio e un piccolo teatro con un’area dietro le quinte e una scalinata che conduceva a una piattaforma simile a un palco, probabilmente utilizzato per spettacoli rituali davanti a un pubblico selezionato.
Questi reperti sono datati ben prima di Machu Picchu e delle culture pre-Inca e Nazca!
Si ipotizza che la costruzione possa essere opera dei Moche, un popolo misterioso di cui si hanno poche informazioni: «Non sappiamo come si chiamassero o come le altre persone si riferissero a loro. Tutto ciò che sappiamo di loro deriva da ciò che hanno creato: le loro case, i templi e i beni funerari. Qui le persone hanno creato sistemi religiosi complessi e visioni del loro cosmo», ha spiegato Ynoñán, aggiungendo che la religione era un aspetto cruciale nell’emergere dell’autorità politica. Inoltre, sono stati trovati grandi murales dipinti sui muri, da cui sono stati prelevati campioni di pigmenti per l’analisi al carbonio, che confermerà l’età del sito.
Ynoñán ha descritto l’emozione di trovarsi davanti a raffigurazioni di antiche divinità, sottolineando il legame speciale e profondo con la scoperta, poiché la sua famiglia proviene dalla zona.
Quando accompagno qualche amico in giro a Napoli, mi piace fermarmi davanti il portale del Maschio Angioino e raccontare una delle leggende trascritte da Benedetto Croce nel suo “Storie e leggende napoletane”, che riguarda delle misteriose sparizioni: «Era in quel castello una fossa sottoposta al livello del mare, oscura, umida, nella quale si solevano cacciare i prigionieri che si volevano più rigidamente castigare: quando a un tratto si cominciò a notare con istupore che, di là, i prigionieri sparivano».
Secondo un’antica leggenda, infatti, il re aragonese Ferrante, figlio di Alfonso il Magnanimo, utilizzava una cella, detta la Fossa del Miglio, ricavata nello spazio sottostante la Cappella Palatina e utilizzata dagli Aragonesi per il deposito del grano: la Fossa del Miglio divenne la cella dove venivano rinchiusi i prigionieri condannati alle pene più dure. Durante il regno di Giovanna II le prigioni ospitarono illustri personaggi, ma raggiunsero il gran completo durante la famosa Congiura dei Baroni. In quella fossa, infatti, sostarono i baroni ribelli prima di andare a morte.
Come raccontava Benedetto Croce, pare che molti dei prigionieri rinchiusi nella Fossa del Miglio scomparissero nel nulla, dalla sera alla mattina. Aumentata la vigilanza, si scoprì la causa delle sparizioni: da un’apertura che si trovava sotto il livello dell’acqua entrava un coccodrillo, che azzannava i prigionieri trascinandoli in mare. Forse arrivato dall’Egitto nella scia di una nave, l’animale venne per qualche tempo utilizzato per liberarsi, senza troppa pubblicità, dei prigionieri più scomodi.
Secondo la leggenda, esaurito il suo compito, la bestia fu poi catturata con un’esca gigante, una coscia di cavallo, quindi uccisa, impagliata e esposta in bella vista sulla porta d’ingresso del Castello.
In effetti fino al 1875 un coccodrillo fu realmente esposto sulla sommità della porta di bronzo di Castel Nuovo, come testimonia la celebre foto di Robert Rive: quell’anno il macabro trofeo fu donato dal comandante del Forte a Giuseppe Fiorelli, che nel 1866 aveva fondato il Museo di San Martino.
Benedetto Croce, inoltre, aggiunge come l’animale venisse «additato ai fanciulli, che ne restavano atterriti».
In realtà le leggende relative ad un «immondo rettile» (come lo definì Alexandre Dumas nella “Storia dei Borbone di Napoli”) sono ben tre, diverse, ma ambientate tutte in epoca medievale.
Oltre a quella relativa a Ferrante d’Aragona, che regnò a Napoli dal 1458 al 1494, la seconda riguarda la regina Giovanna, dipinta come una ninfomane dispotica, perfida e perennemente affamata di sesso. Giovanna II, o Giovanna di Durazzo, sorella di re Ladislao, regnò a Napoli dal 1414 al 1435, anno della sua morte: secondo la leggenda che la vede protagonista, dopo aver ospitato nella sua alcova amanti di ogni estrazione sociale per soddisfare le sue voglie, li faceva cadere in un pozzo attraverso una botola segreta, perché non lasciassero tracce: in fondo al pozzo, ad attenderli, ci sarebbe stato il coccodrillo della leggenda.
La terza versione riguarda un coccodrillo impagliato offerto come ex voto da un soldato di ritorno dall’Egitto, durante il Medioevo, all’immagine della Madonna del Parto che si trovava nella cappella palatina, come racconta Pompeo Sarnelli in una delle prime “guide turistiche” di Napoli del 1685.
Oggi però, grazie ad uno studio di Vincenzo Caputo Barucchi, ordinario di Anatomia comparata all’università politecnica delle Marche, insieme a Tatiana Fioravanti, esperta di Dna antico, e a Emanuele Casafredda, laureato in Restauro presso l’Accademia di belle arti di Napoli, che si è occupato del restauro di quanto era rimasto del coccodrillo, rimasto per oltre 150 anni nei depositi del Museo di San Martino, si è scoperto che è proprio quest’ultima leggenda ad essere vera!
Analizzando il Dna antico prelevato dalla radice di un dente dell’animale e del radiocarbonio, è stato possibile chiarire l’origine del coccodrillo impagliato, classificato come “Crocodylus niloticus”, riconducendolo alla popolazione attuale del lago Nasser, in Egitto, mentre, secondo il metodo del radiocarbonio, il reperto risalirebbe ad un periodo compreso tra il 1296 e il 1419, del tutto compatibile con la leggenda dell’ex voto.
“Siamo orgogliosi di aver contribuito a riscrivere un pezzo marginale ma significativo della storia di Napoli, una città che non smette mai di sorprendere”, ha detto lo specialista.
Lo studio avrebbe inoltre stabilito che, mummie a parte, il coccodrillo egiziano di Napoli è il più antico reperto tassidermizzato giunto fino a noi dall’antichità.
Qualche giorno fa, durante una visita ad una libreria in cui mi piace spesso immergermi, soprattutto tra gli scaffali dedicati ai testi rari e ormai introvabili, mi sono imbattuto in un volume estremamente interessante per chiunque si interessi di ricerca paranormale, che è riuscito ad aprire un portale spazio-temporale proiettandomi per qualche momento in Inghilterra, in un passato popolato da fate, gnomi ed altri esseri magici.
Si tratta del testo “Apparizioni delle fate”, pubblicato negli anni ’50 del secolo scorso dalla Società Teosofica Italiana. Sottotitolo dell’opera è “Fotografie originali autentiche documentate e descritte da Edward L. Gardner“.
Nell’introduzione si legge: “Le tradizioni popolari di tutto il mondo affermano l’esistenza degli spiriti di natura che occasionalmente vengono veduti dagli uomini e vi sono migliaia di persone che sarebbero disposte a giurare d’aver veduto con i propri occhi spiriti di varia forma e natura. […] Le pagine seguenti costituiscono una documentazione fotografica definitiva sull’esistenza di tali ordini di spiriti di natura, che in condizioni normali non sono percepiti dall’uomo”.
Il portale spazio-temporale che ho varcato con questo libro mi ha teletrasportato in un passato in cui il Mondo – o almeno una certa parte di esso – è realmente convinto che nel 1917, a Cottingley, due ragazzine siano riuscite non solo a stabilire un contatto con degli esseri magici come fatine e gnomi, ma che le foto scattate per dimostrarne l’esistenza siano autentiche!
Nel 1917, infatti, la piccola Frances Griffiths, di nove anni, e sua madre, si trasferirono dal Sud Africa a casa della zia di Frances, presso il villaggio di Cottingley, nello Yorkshire occidentale.
Frances giocava spesso con sua cugina, una ragazza di 16 anni di nome Elsie Wright, ed un giorno dissero di aver visto delle fate in giardino: per provarlo presero in prestito la fotocamera del padre di Elsie e tentarono di fotografarle.
Il padre di Elsie, Arthur Wright, aveva una camera oscura, e mentre stava sviluppando delle foto, ne trovò alcune che mostravano Frances dietro un cespuglio con 4 fatine che danzavano davanti a sé.
Siccome Elsie aveva lavorato in uno studio fotografico, il signor Wright pensò subito che le fate non fossero altro che delle piccole sagome di cartone.
Due mesi dopo le ragazze presero nuovamente la fotocamera del signor Wright e scattarono delle foto di Elsie che tendeva la mano ad uno gnomo. Arthur Wright era convinto che si trattasse di uno scherzo, mentre sua moglie Polly credeva che fosse tutto vero.
Le foto vennero pubblicate nel 1919, quando Polly Wright partecipò ad un incontro della Società Teosofica che si era tenuto a Bradford: le fotografie furono esposte durante la conferenza annuale della Società ad Harrogate, e qualche mese dopo catturarono l’attenzione proprio di Edward Gardner, che le inviò, insieme ai negativi originali, ad Harold Snelling, il quale si convinse che le foto fossero autentiche.
Arthur Conan Doyle volle utilizzarle come illustrazioni per un articolo sulle fate che gli era stato commissionato dalla rivista The Strand Magazine, pubblicato in occasione del numero natalizio del 1920 e pubblicizzato in copertina come “Fotografate delle fate: un evento epocale descritto da A. Conan Doyle”.
Le copie della rivista andarono esaurite in pochi giorni dalla pubblicazione, visto che l’articolo di Doyle conteneva due stampe ad alta risoluzione delle foto scattate nel 1917. L’articolo destò molta curiosità e scatenò le reazioni più disparate, tra lo scetticismo di chi credeva si trattasse di uno scherzo e lo stupore di chi era convinto che le foto fossero vere.
Per fugare ogni dubbio sull’autenticità delle fotografie, Gardner e Doyle chiesero alla compagnia fotografica Kodak di esprimere un parere sulle foto: nonostante i tecnici concordassero con Snelling che le foto non mostrassero alcun segno di manomissione, le immagini delle fate non potevano essere reali, per cui la compagnia rifiutò di emettere un certificato di autenticità, mentre un’altra compagnia fotografica, la Ilford, dichiarò che fosse evidente che si trattava di una falsificazione.
Nel 1920 Arthur Conan Doyle chiese a Gardner di incontrare famiglia Wright: Arthur Wright gli disse che aveva ispezionato la stanza delle ragazze e l’area dove erano state scattate le fotografie, vicino ad un ruscello, alla ricerca di pezzi di figurine o sagome di cartone, ma che non aveva trovato nulla. Gardner allora tornò a Cottingley verso la fine di luglio dello stesso anno con due fotocamere e 24 lastre fotografiche che aveva segnato: le ragazze scattarono diverse fotografie, due delle quali mostravano le fate.
A partire dall’agosto del 1921, quando Gardner tornò a Cottingley senza però trovare nuove fotografie, l’interesse per la storia delle fate scemò gradualmente.
Fu solamente nel 1983 che Elsie e Frances ammisero, in un articolo pubblicato sulla rivista The Unexplained, che le fotografie erano state falsificate, anche se entrambe affermavano di aver visto sul serio delle fate.
Elsie spiegò che avevano ritagliato alcune illustrazioni da un libro per bambini dell’epoca, il Princess Mary’s Gift Book, incollandole su delle sagome di cartone e aggiungendo delle ali alle figurine, che poi avevano fissato con delle forcine per tenerle in piedi.
Nonostante la confessione di Elsie, Frances, insistette nell’affermare che l’ultima foto scattata fosse autentica e si spense nel 1986. Elsie, invece, morì nel 1988, mentre le lastre fotografiche di vetro furono acquistate per 6000 sterline da un compratore anonimo durante un’asta tenutasi a Londra nel 2001.
Qualche giorno fa sono stato intervistato da Giuliana Galati, fisica, conduttrice di Superquark+ e coordinatrice della XIX edizione del “Corso per indagatori di misteri” del CICAP, in merito ai fenomeni paranormali.
Come si fa a smascherare un sensitivo fraudolento? È possibile riprodurre le gesta dei più famosi sensitivi del mondo?
La luna, il satellite della Terra, è anche il sito di uno dei più famosi crateri da impatto del nostro intero sistema solare.
In pratica qualcosa ha causato un enorme buco sulla luna miliardi di anni fa e gli astronomi hanno appena scoperto che c’è qualcosa di grande – praticamente enorme – sepolto sotto la superficie.
Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista “Geophysical Research Letters”, il bacino del South Pole-Aitken della luna nasconde una massa che è stimata in 2.18 quintilioni di chilogrammi (ovvero 2.180.000.000.000.000.000 kg!) .
“Immagina di prendere una pila di metallo cinque volte più grande della Big Island delle Hawaii e seppellirla sottoterra, è all’incirca la massa inattesa che abbiamo rilevato”, ha detto l’autore Peter B. James in un comunicato.
I ricercatori di Baylor hanno utilizzato diversi dati raccolti da veicoli spaziali che misurano la gravità attorno alla luna e li hanno confrontati con mappe e immagini della superficie lunare, rilevando una massa metallica densa che si abbatteva sul suolo.
Di cosa si tratta, allora? James e il suo team ipotizzano che potrebbe essere stato incorporato nel suolo della luna dall’impatto con l’asteroide che ha causato il cratere circa 4 miliardi di anni fa.
Se è vero, potrebbe essere una sorta di macchina del tempo – e una miniera d’oro – per gli scienziati che studiano la storia dell’universo. Tutto quel metallo, e fondamentalmente l’intera area che circonda la massa e il cratere, potrebbe dire loro molto su come è avvenuto l’impatto degli asteroidi e su come fosse il sistema solare quando ci fu l’impatto.
Il bacino sarebbe “uno dei migliori laboratori naturali per studiare eventi di impatto catastrofico, un antico processo che ha modellato tutti i pianeti rocciosi che vediamo oggi”, ha detto James.
Sfortunatamente il cratere – e la misteriosa sostanza sottostante – non sono visibili dalla terra, dal momento che sono letteralmente sul “dark side of the moon”, il lato più oscuro della luna!
Se per qualcuno sono solo sciocchezze senza alcun significato oppure un normale meccanismo necessario a consolidare i ricordi della giornata, altri, che magari si ritengono più spirituali, credono che si tratti di messaggi da un altro mondo, forse dall’aldilà.
Ma se i sogni nascono da attività cerebrali casuali, come mai sembrano svolgersi in modi così coerenti? E se si tratta solo di banali rielaborazioni degli eventi della giornata, come mai sono spesso così vividi, fantasiosi o surreali?
James Hollis, uno psicoterapeuta junghiano secondo cui i sogni non sono per niente insensati, si chiede “chi mai inventerebbe certe cose?”
Notte dopo notte, quando andiamo a letto, ci passano per la mente storie folli e complicatissime sulle quali non abbiamo nessun controllo, ed è una cosa davvero affascinante.
Nonostante i sogni siano difficili da analizzare in laboratorio in quanto si tratta di esperienze molto personali, gli studi di alcuni ricercatori tra cui Matthew Walker, che ha scritto alcuni libri sull’argomento, fanno pensare che i sogni siano una sorta di analisi notturna: durante la fase REM rielaboriamo emotivamente le esperienze che ci hanno messo alla prova, ma senza un neurotrasmettitore come la noradrenalina che induce l’ansia .
Nel corso degli esperimenti, le persone alle quali venivano mostrare immagini con una forte carica emotiva reagivano con più calma quando le rivedevano dopo una buona nottata piena di sogni: un risultato difficile da ottenere sia con un sonno senza sogni sia con il semplice passare del tempo.
Quasi certamente Carl Jung non avrebbe accettato questa spiegazione, perché sosteneva che i sogni sono messaggi dell’inconscio il cui scopo è quello di offrirci dei simboli che rappresentano intuizioni che sfuggono alla mente cosciente.
Quando un sogno ci colpisce particolarmente, infatti, ce lo scriviamo, lo analizziamo con o senza l’aiuto di un analista, ipotizziamo diverse interpretazioni, e se una ci sembra quella giusta – se ci ha fatto venire la pelle d’oca e ci ha provocato una forte emozione – cerchiamo di approfondirla.
Se però Jung si fosse sbagliato e i sogni fossero davvero dei fenomeni casuali, trattandoli come se fossero potenzialmente significativi e prendendo in considerazione solo quelle interpretazioni che ci sembrano corrette, finiamo comunque per capire qualcosa di importante.
Chiederci che cosa stanno cercando di dirci i nostri sogni significa, quindi, farci domande profonde e difficili che altrimenti eviteremmo, anche se magari non stavano cercando di dirci proprio nulla…
Non tutti sanno che la “memoria” è in realtà un sistema molto complesso: esistono memorie a breve e a lungo termine, ovvero la capacità di ricordare un numero di telefono solo per il tempo necessario a digitarlo e quella di recitare una filastrocca imparata a memoria da bambini, memorie procedurali, ad esempio come si guida un’auto, memorie autobiografiche che ci consentono di ricordare tutto ciò che ci è successo in vita, memorie sensoriali che riguardano suoni oppure odori, e la memoria semantica, che ci fa riconoscere suoni e parole nelle lingue che conosciamo.
Nel video che segue, in cui è possibile attivare i sottotitoli in italiano, la psicologa Elizabeth Lotus, un’esperta di manipolazione della memoria, racconta in una Ted Conferencecom’è possibile che i ricordi vengono deformati o modificati a partire da informazioni fuorvianti: tutto comincia analizzando il caso di Titus, condannato ingiustamente per stupro perché riconosciuto “con assoluta certezza” dalla vittima…
Un recente studio ha dimostrato che il nostro corpo saprebbe riconoscere quando un grande evento si sta avvicinando, esattamente un attimo prima che accada.
Se fosse confermata, questa ricerca – che è stata pubblicata sulla rivista “Frontiers of Perception” e che ricorda molto il romanzo “La Zona Morta” di Stephen King– potrebbe farci scoprire qualcosa di fondamentale sulle leggi dell’universo che non sono state ancora del tutto rivelate.
“Ciò che emerge dagli esperimenti è che gli eventi possono essere previsti”, afferma Julia Mossbridge, neuroscienziata della Northwestern University e coautrice dello studio: “La domanda è: come funziona?”
Durante gli esperimenti è emerso che le risposte fisiologiche come il battito cardiaco, la dilatazione delle pupille e l’attività cerebrale cambiavano da uno e dieci secondi prima che ai soggetti venisse mostrata una foto spaventosa. In molti di questi esperimenti le immagini erano intervallate in maniera casuale da alcune foto normali, in modo che i partecipanti non avessero, teoricamente, alcuna idea su cosa avrebbero visto.
Siccome però la scoperta è particolarmente interessante, questi studi sono stati duramente criticati dagli scettici.
Per dimostrare, allora, che i risultati fossero reali e non falsati, la Dr.ssa Mossbridge e il suo team hanno analizzato oltre due dozzine di esperimenti: come parte dell’analisi hanno scartato qualsiasi esperimento in cui ci fosse anche il minimo sospetto di errori statistici e nonostante questo hanno trovato un effetto “presentimento”, nel quale il corpo avverte fisiologicamente che si sta per verificare un evento.
La scoperta dimostrerebbe che i nostri corpi in maniera inconscia avvertirebbero il futuro un attimo prima che si stia per verificare qualcosa di importante, anche se non ne siamo consapevoli.
Se, ad esempio, un agente di borsa si trovasse a dover investire molto denaro su un titolo azionario, dieci secondi prima potrebbe “avvertire” l’andamento delle azioni di quel titolo, come ha affermato la Dr.ssa Mossbridge a LiveScience.
Il paper non entra nel merito delle facoltà paranormali: al contrario, gli esperti credono che i presentimenti siano molto più reali di quanto crediamo e che rispondano ad una legge ben specifica della natura, anche se nessuno è ancora riuscita a decifrarla del tutto.
Altri scienziati come Rufin VanRullen, uno studioso di scienze cognitive al Center for Research on the Brain and Cognition, restano comunque scettici riguardo questa interpretazione e sono convinti che ci siano stati degli errori statistici che hanno portato a risultati quando in realtà non ce e sarebbero, portandoli a pensare che questi presentimenti non esistano per niente.
Un giorno qualunque in Ohio il signor Springer ricevette un messaggio in segreteria e quando lo ascoltò provò uno strano brivido lungo la schiena.
Il messaggio era generico e molto breve: chi aveva telefonato, infatti, disse semplicemente il proprio nome (“Mi chiamo Lewis…”) e lasciò il suo numero di telefono, senza dilungarsi ulteriormente sul motivo di quella telefonata.
E il signor Springer dopo averlo ascoltato richiamò immediatamente, come preso da uno strano presentimento che il suo intuito confermò non appena il signor Lewis rispose alla sua telefonata con il classico “Pronto?”.
In quel momento, infatti, il signor Springer riconobbe immediatamente quella voce, anche se non l’aveva mai sentita prima d’allora: era la voce di suo fratello gemello, che non aveva mai conosciuto poiché erano stati separati alla nascita!
La madre dei due gemelli era una ragazzina di 15 anni che decise di dare in adozione anonimamente i suoi piccoli che, pur essendo stati separati, mantennero un contatto attraverso un filo invisibile.
Crescendo, ad entrambi i bambini i genitori raccontarono che erano stati adottati e che avevano avuto un fratello gemello, sfortunatamente morto alla nascita.
Le due coppie di genitori – che non ebbero mai alcun contatto tra di loro, nemmeno in ospedale – decisero di dare al loro figlio lo stesso nome: Jim, dando inizio, in quel momento, alla vita “parallela” di Jim Springer e Jim Lewis e rendendoli protagonisti di una serie di incredibili coincidenze, così come scoprirono nel 1977, 39 anni dopo, con quella famosa telefonata.
Tutti e due avevano un fratello adottivo che si chiamava Larry;
Da piccoli entrambi avevano chiamato il loro cane Toy;
A scuola entrambi andavano bene nelle stesse materie (matematica e applicazioni tecniche) e malissimo in grammatica e ortografia;
Entrambi si erano sposati due volte, e con donne che avevano gli stessi nomi: Linda, la loro prima moglie, e Betty, la seconda;
Entrambi avevano dato al loro primo figlio lo stesso doppio nome, James Allen;
Entrambi avevano fatto il vice-sceriffo, seppur in contee differenti dell’Ohio;
Entrambi avevano poi svolto lavori inerenti la sicurezza.
Inoltre i due gemelli amavano il mare, mentre per entrambi il luogo preferito era St. Petersburg, in Florida, 1641 chilometri più a sud: anche se non si erano mai incrociati, visto che andavano in due spiagge differenti.
Negli anni, com’era prevedibile, Jim Springer e Jim Lewis sono stati oggetto di approfonditi studi da parte di varie Università americane e anche gli esami medici sono stati sorprendenti: le loro cartelle cliniche, per esempio, sono praticamente identiche, così come sono del tutto sovrapponibili le loro onde cerebrali.
Le loro risposte ai test sono state sempre talmente simili (se non identiche), tanto da sembrare frutto della stessa persona e da dubitare che questi fossero stati compilati in stanze differenti.
Ora i fratelli gemelli Jim Springer e Jim Lewis hanno 75 anni, abitano sempre in due città diverse e quando si rivedono, si divertono a raccontare davanti ai loro figli e nipoti increduli, i continui episodi identici accaduti nei mesi in cui non si sono visti.
Vi è mai capitato di avere difficoltà nel capire se la persona che avete di fronte è arrabbiata o triste, oppure di scambiare le occhiate amichevoli di qualcuno per un flirt, magari cacciandovi in una situazione particolarmente imbarazzante?
Ebbene, sappiate che capita molto spesso ad ognuno di noi.
Come esseri umani, infatti, dobbiamo socializzare con altre persone, il che significa essere in grado di comunicare sia verbalmente che attraverso il linguaggio del corpo. Siccome le emozioni da comunicare e le relative sfumature sono tantissime, diventa complicato esprimerle con il linguaggio non verbale e, di conseguenza, interpretarle per chi abbiamo di fronte.
È molto facile, ad esempio, riconoscere le sei emozioni universali: felicità, disgusto, paura, sorpresa, tristezza e rabbia, ma che dire di emozioni secondarie, come imbarazzo, orgoglio, dolore, vergogna, senso di colpa, ecc?
La ragione principale per cui spesso potremmo avere difficoltà a interpretare le emozioni altrui è il cosiddetto “affect blend”, quando, cioè, un’emozione viene mostrata dal nostro interlocutore da un solo lato del viso, mentre un’altra emozione viene mostrata da entrambi i lati: il nostro cervello, infatti, interpreta entrambi i lati del volto di chi ci sta di fronte per riconoscere l’emozione che viene espressa, come dimostrato dall’esperimento “Cortical Systems for the Recognition of Emotion in Facial Expressions” (sistemi corticali per il riconoscimento dell’emozione nelle espressioni facciali).
Chi invece ha subito incidenti che hanno danneggiato un lato del cervello potrebbe avere difficoltà a riconoscere le emozioni negative, in particolar modo la paura, mentre, riconosce senza problemi la felicità.
Un altro motivo per cui spesso tendiamo a fraintendere le emozioni è la cultura di provenienza: nella cultura occidentale, infatti, agli uomini viene insegnato a non piangere ed a non mostrarsi fragili, mentre alle donne viene chiesto sempre più spesso di essere felici e sorridenti, mentre nella cultura giapponese, viceversa, alle persone viene insegnato a mostrare meno espressioni facciali ed alle donne è insegnato a nascondere il sorriso.
Infine, la ragione per spesso abbiamo difficoltà a interpretare le emozioni altrui è perché chi ci sta di fronte potrebbe avere degli “schemi” – ovvero quei concetti cognitivi che ci aiutano a organizzare le informazioni per aiutarci a interpretare il mondo che ci circonda – diversi su come mostrare alcune specifiche emozioni: se qualcuno ad esempio cresce pensando che una persona debba sgranare gli occhi per mostrare sorpresa, confonderà sempre la sorpresa con la paura perché si limiterà a focalizzare l’attenzione solo sugli occhi di chi ha di fronte!
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