Quando accompagno qualche amico in giro a Napoli, mi piace fermarmi davanti il portale del Maschio Angioino e raccontare una delle leggende trascritte da Benedetto Croce nel suo “Storie e leggende napoletane”, che riguarda delle misteriose sparizioni: «Era in quel castello una fossa sottoposta al livello del mare, oscura, umida, nella quale si solevano cacciare i prigionieri che si volevano più rigidamente castigare: quando a un tratto si cominciò a notare con istupore che, di là, i prigionieri sparivano».

Secondo un’antica leggenda, infatti, il re aragonese Ferrante, figlio di Alfonso il Magnanimo, utilizzava una cella, detta la Fossa del Miglio, ricavata nello spazio sottostante la Cappella Palatina e utilizzata dagli Aragonesi per il deposito del grano: la Fossa del Miglio divenne la cella dove venivano rinchiusi i prigionieri condannati alle pene più dure. Durante il regno di Giovanna II le prigioni ospitarono illustri personaggi, ma raggiunsero il gran completo durante la famosa Congiura dei Baroni. In quella fossa, infatti, sostarono i baroni ribelli prima di andare a morte.

Come raccontava Benedetto Croce, pare che molti dei prigionieri rinchiusi nella Fossa del Miglio scomparissero nel nulla, dalla sera alla mattina. Aumentata la vigilanza, si scoprì la causa delle sparizioni: da un’apertura che si trovava sotto il livello dell’acqua entrava un coccodrillo, che azzannava i prigionieri trascinandoli in mare. Forse arrivato dall’Egitto nella scia di una nave, l’animale venne per qualche tempo utilizzato per liberarsi, senza troppa pubblicità, dei prigionieri più scomodi.

Secondo la leggenda, esaurito il suo compito, la bestia fu poi catturata con un’esca gigante, una coscia di cavallo, quindi uccisa, impagliata e esposta in bella vista sulla porta d’ingresso del Castello.

In effetti fino al 1875 un coccodrillo fu realmente esposto sulla sommità della porta di bronzo di Castel Nuovo, come testimonia la celebre foto di Robert Rive: quell’anno il macabro trofeo fu donato dal comandante del Forte a Giuseppe Fiorelli, che nel 1866 aveva fondato il Museo di San Martino.

Benedetto Croce, inoltre, aggiunge come l’animale venisse «additato ai fanciulli, che ne restavano atterriti».

In realtà le leggende relative ad un «immondo rettile» (come lo definì Alexandre Dumas nella “Storia dei Borbone di Napoli”) sono ben tre, diverse, ma ambientate tutte in epoca medievale.

Oltre a quella relativa a Ferrante d’Aragona, che regnò a Napoli dal 1458 al 1494, la seconda riguarda la regina Giovanna, dipinta come una ninfomane dispotica, perfida e perennemente affamata di sesso. Giovanna II, o Giovanna di Durazzo, sorella di re Ladislao, regnò a Napoli dal 1414 al 1435, anno della sua morte: secondo la leggenda che la vede protagonista, dopo aver ospitato nella sua alcova amanti di ogni estrazione sociale per soddisfare le sue voglie, li faceva cadere in un pozzo attraverso una botola segreta, perché non lasciassero tracce: in fondo al pozzo, ad attenderli, ci sarebbe stato il coccodrillo della leggenda.

La terza versione riguarda un coccodrillo impagliato offerto come ex voto da un soldato di ritorno dall’Egitto, durante il Medioevo, all’immagine della Madonna del Parto che si trovava nella cappella palatina, come racconta Pompeo Sarnelli in una delle prime “guide turistiche” di Napoli del 1685.

Oggi però, grazie ad uno studio di Vincenzo Caputo Barucchi, ordinario di Anatomia comparata all’università politecnica delle Marche, insieme a Tatiana Fioravanti, esperta di Dna antico, e a Emanuele Casafredda, laureato in Restauro presso l’Accademia di belle arti di Napoli, che si è occupato del restauro di quanto era rimasto del coccodrillo, rimasto per oltre 150 anni nei depositi del Museo di San Martino, si è scoperto che è proprio quest’ultima leggenda ad essere vera!

Analizzando il Dna antico prelevato dalla radice di un dente dell’animale e del radiocarbonio, è stato possibile chiarire l’origine del coccodrillo impagliato, classificato come “Crocodylus niloticus”, riconducendolo alla popolazione attuale del lago Nasser, in Egitto, mentre, secondo il metodo del radiocarbonio, il reperto risalirebbe ad un periodo compreso tra il 1296 e il 1419, del tutto compatibile con la leggenda dell’ex voto.

“Siamo orgogliosi di aver contribuito a riscrivere un pezzo marginale ma significativo della storia di Napoli, una città che non smette mai di sorprendere”, ha detto lo specialista.

Lo studio avrebbe inoltre stabilito che, mummie a parte, il coccodrillo egiziano di Napoli è il più antico reperto tassidermizzato giunto fino a noi dall’antichità.

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